RELAZIONI
- Le interviste di LimpidaMente
Risposta: «Il titolo è stata la prima cosa ad essere concepita: un’antitesi, nel mio immaginario, intorno al quale ho costruito la narrazione. I girasoli, pur nella loro maestosità, mi ispiravano e mi ispirano tutt’ora, un sentimento di sudditanza, di ubbidienza rassegnata, con la loro “testa” perennemente china verso il basso. La farfalla, per converso, forse banalmente, rappresentava il simbolo di una trasfigurazione: da bozzolo (informe) a meraviglia della natura. Questa in sintesi la metafora che meglio poteva rispecchiare le due fasi di una vita che aveva visto il personaggio di Penelope, per anni imbrigliato, impotente, dentro una vita di negazioni e poi, all’improvviso, farsi colore e librarsi nell’aria». Perché ha trattato questo tema nel suo romanzo? «Credo che molti di coloro che decidono di prendere in mano una penna lo facciano, inizialmente, spinti dal desiderio di raccontarsi. Di esprimere sentimenti che si provano in prima persona, anche perché, almeno per me, rimane molto più facile. E comunque ritengo che in ogni libro venga sempre riversata una parte dell’intimo di chi lo scrive. Così, pur cosciente del rischio di parlare di qualcuno che nessuno conosce e di cui a nessuno importa qualcosa, sentivo l’esigenza di raccontare una storia, che tale alla fine è, che poteva avere un suo significato, catartico in primis per me che la scrivevo, di confronto e, spererei, di conforto, per chiunque ritenga di essere sacrificato dalla propria famiglia». Secondo la sua opinione perché si creano conflitti tra madre e figlia? Esiste una sorta di rivalità? «Posso esprimermi sulla base di un’esperienza che non può vedermi madre, non avendo, per scelta, avuto figli. Volendo approcciare una minutissima analisi di più ampio respiro, affermerei che quei tempi, i miei tempi, gli anni a partire dal 1960 al 1990, senza scadere nella retorica, erano diversi: la grande rivoluzione degli anni ‘60/’70, i figli dei fiori, le droghe che iniziavano a circolare, gli anni di piombo, l’emancipazione delle donne... tutte realtà che, sebbene in toni molti attenuati, facevano sentire la loro eco anche nella provincia più campagnola. Le nostre mamme uscivano da anni duri e si trovavano a dover crescere delle figlie in un mondo che sembrava scappar loro di mano. Dal dopoguerra ci si ritrovava di colpo in una prosperità economica che faceva girare la testa ma, allo stesso tempo, in un dilagare di mode spregiudicate. Forse il futuro che sognavano così “rosa” per le loro figlie, sembrava dover cedere il passo ad un’evoluzione incomprensibile da cui bisognava assolutamente preservarle e tutelarle. Ma, come d’altra parte in ogni epoca, i progetti di una madre per una figlia, pur nella loro sacrosanta benevolenza e lungimiranza, non possono essere condivisi se vengono unilateralmente imposti come assoluti e veri. Le mamme di oggi, figlie di quei tempi, hanno avuto, tutto sommato, il loro futuro roseo e vivono nella paura di perderlo. In questo senso tentano di perpetuare una condizione che spesso le pone in competizione con le proprie figlie». Le protagoniste del suo romanzo arrivano ad odiarsi o continuano ad amarsi nonostante i loro contrasti? «Penelope sicuramente ha odiato sua madre; altrettanto non può dirsi di Marianna perché, credo, sia contronatura sostenere che una madre arrivi ad odiare una figlia. Diciamo che non è riuscita a dimostrarle il suo amore nel modo giusto. Si sono ritrovate, pertanto, a viaggiare su due binari paralleli, determinata nel perseguire la propria linea impositiva l’una e sorretta da sentimenti di avversione l’altra. Ad un certo punto della vita, però, il cuore riesce, grazie a eventi di congiunzione astrale finalmente positiva, a trovare il sollievo per anni cercato. Ma non è un dono gratuito. Per poterlo considerare tale e non perderlo di nuovo, si deve ripercorrere a ritroso il cammino, rivisitarlo, riconsiderarlo, cercare di assimilarlo fino ad arrivare al perdono cosciente. Allora e solo allora, si è in grado di andare incontro alla persona che dolore si ritiene ci abbia procurato e guardarla con occhi diversi. Occhi capaci oramai di leggere dentro ad un’anima a sua volta addolorata perché consapevole, anch’essa, adesso, di aver perso troppo tempo inutilmente». In che modo i conflitti con la madre influiscono sulla vita sentimentale di Penelope, la protagonista del suo romanzo? «Penelope è stata sicuramente influenzata dai conflitti che ha dovuto sempre sostenere per conquistarsi una vita sentimentale serena. Ha vissuto in perenne, frustrante, defatigante clandestinità ogni relazione affettiva o pseudo tale. Tuttavia è riuscita a salvaguardare la naturale predisposizione di una donna alla naturalità e naturalezza di un rapporto amoroso; senza inibizioni, falsi turbamenti, recriminazioni...». Il suo romanzo è a tratti ironico: come concilia l'ironia con la drammaticità della storia narrata? «L’ironia, l’autoironia soprattutto, è stata la cartina di tornasole del definitivo abbandono del rancore che avvelenava i ricordi di Penelope. In effetti la prima stesura del libro aveva un taglio estremamente drammatico. Come se Penelope avesse voluto, dapprima, vomitare fuori tutto il risentimento, fissarlo nero su bianco, per poi riuscire a guardarlo con compiacimento ed orgoglio fino a riderne, prima di tutti, lei stessa. Penelope non vuole autocommiserarsi né essere considerata simbolo di oppressione. Vuole semplicemente trasmettere un messaggio: l’amore tra una madre e una figlia, quando è vero amore, prima o poi trova il sentiero giusto». Secondo lei, per evitare conflitti familiari i figli dovrebbero evitare di vivere a stretto contatto con i genitori? «No. I rapporti genitori-figli costituiscono la cellula basilare di una società. La famiglia dovrebbe essere un microcosmo dove perfezionare le relazioni interpersonali tra essere umani: dove insegnare e imparare l’amore, il rispetto, la giustizia, il civismo, l’onestà, la forza, il coraggio... Se il legame tra genitori, figli, fratelli fosse solido e sano tanti problemi non esisterebbero. Ma capisco che così non è». Quali difetti delle protagoniste del suo romanzo mette in evidenza, con riferimento alle loro relazioni? E quali pregi? «I difetti di Marianna possono riassumersi nella chiusura assoluta al dialogo con la propria figlia sulla base della presunzione - dettata dall’amore per fortuna - di essere la depositaria della consapevolezza di cosa sia giusto e cosa non lo sia. I pregi possono essere ricondotti alla ferrea coerenza che accompagnerà sempre le sue scelte e le sue conseguenti decisioni . Penelope, bevuto questo calice, matura una profonda disistima di se stessa e un forte egoismo mascherato da sentimenti di generosità che la portano a rasentare spesso la sprovvedutezza del Don Chisciotte». Cosa dovrebbe sforzarsi di fare una figlia per andare d'accordo con sua madre? E cosa dovrebbe fare la madre? «È necessario porsi sempre su un piano di reciproca comprensione, di dialogo, di fiducia, di stima, di accettazione, di scontro perché no, di confronto, senza mai però trascendere nell’ipocrisia del “siamo come due amiche” perché una madre deve sempre essere una madre e una figlia sempre una figlia. Un minimo di sano timore reverenziale e/o rispetto genitoriale, non guasta mai». Ha in programma la pubblicazione di altri libri sullo stesso argomento? «Avevo lasciato Penelope sulla soglia del giorno più bello della sua vita, riservandomi la possibilità di riprendere in mano la penna. E l’ho fatto. Ma, onde evitare di stancare il lettore, ho chiuso il cerchio nel volgere di due capitoli. Poi, con uno scarto illustrativo e temporale, racconto le vicissitudini affrontate da Penelope nella pubblicazione del suo libro, dando voce al libro stesso, in una sorta di duetto improbabile. Tuttavia non sono convinta di questa mia fatica, per cui la sto tenendo in stand bay. Nel frattempo scrivo racconti - che, come in una sorta di storia ad episodi, vedono sempre Penelope come protagonista – che mi stanno dando grandi sodisfazioni». |
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