CULTURE
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Le interviste di LimpidaMente
Risposta: «Domanda difficile. In teatro, nella maggior parte dei casi mi sono auto-diretto e i ruoli erano comici, genere in cui so di essere bravo. In più, per quanto riguarda il teatro sono molto più selettivo che non per quanto riguarda il cinema. Faccio solo copioni che mi piacciono e con compagni di lavoro di cui ho stima assoluta. In cinema però ho avuto grossi ruoli che mi hanno dato la possibilità di esplorare altre personalità, anche molto estreme, come nel caso dei film dell’orrore di cui sono diventato, mio malgrado, una star, soprattutto all’estero. Tutto sommato direi che posso accontentarmi su tutti e due i fronti». Quali sono le differenze tra la recitazione teatrale e quella cinematografica? Quale è più impegnativa? «Sono molto impegnative tutte e due, ma in modo diverso. In teatro è una full immersion di due ore in cui entri nel personaggio e non lo lasci più. In cinema, la tensione è diluita nelle dodici ore di lavoro della giornata, ma quando sei davanti alla macchina da presa la concentrazione è assoluta e la verità deve essere totale. In teatro sei più “difeso”, in un certo senso, dalle lunghe prove, dalla possibilità di migliorare replica dopo replica. In cinema l’attore è più esposto, più fragile, ma le sensazioni che si possono provare sono molto intense. Mi piacciono tutti e due i mezzi, ma del cinema preferisco la varietà della vita sul set. Le lunghe tournèe del teatro un po’ mi annoiano». Nel cinema e nella TV lei svolge i ruoli di attore e sceneggiatore. Quale preferisce? «Come sceneggiatore ho lavorato quasi esclusivamente in televisione e da qualche anno, per ragioni che mi sfuggono, le porte mi si sono chiuse in faccia, sia in Rai che a Mediaset, nonostante sia stato fra gli autori di grandi successi, fra tutti “I Ragazzi del Muretto”. Comunque preferisco senz’altro fare l’attore. Molto più divertente e con molte meno rotture di scatole». Qual è la differenza tra scrittore e sceneggiatore? «Senza dubbio la libertà. Lo scrittore scrive quello che vuole, come vuole e quando vuole, lo sceneggiatore (specie se televisivo) scrive quello che gli dicono di scrivere, sottoposto a ogni tipo di pressione (produttori, network, attori) e spesso con dei tempi molto stretti». Preferisce sceneggiare romanzi editi o soggetti inediti? «Ho sceneggiato soprattutto serie televisive, a volte partecipando alla stesura della cosiddetta “bibbia” (la traccia generale del progetto), a volte no. Sceneggiare romanzi editi mi attrarrebbe molto, ma non mi è capitato. L’inedito comporta una creazione più intimamente tua, ma, come ho detto i condizionamenti in tv sono infiniti e noiosissimi. Un bel romanzo da rendere al cinema o in tv sarebbe un po’ come tradurre da una lingua all’altra, lavoro che infatti svolgo e con grande passione. Ho tradotto moltissimi copioni teatrali dall’inglese e dal francese e ho “in corso d’opera” i sonetti di Shakespeare, che traduco rispettando versi e rime». Mentre scrive una sceneggiatura per la TV, interagisce con l'autore del soggetto e con il regista? In che modo? «Il rapporto col regista delle serie è di solito scarsissimo. Spesso arriva all’ultimo momento e gira quello che trova. Il rapporto più stretto (e più insopportabile) è con l’editor del network committente, che vuole tutto e il contrario di tutto ed è perfino capace di dirti (a me è capitato) che una sceneggiatura è troppo ben fatta per la capacità interpretativa degli attori scelti (i soliti belloni e bellone arrivati da non si sa dove)». Quale preparazione deve avere chi vuole lavorare come sceneggiatore? Lei come ha iniziato? «Io sono stato, da giovanissimo, uno dei “padri fondatori” della serialità italiana. Paolo di Valmarana, ora purtroppo scomparso e allora dirigente Rai, voleva cominciare anche in Italia la lunga serialità e dato che aveva visto una commedia scritta da me e Marina Garroni mi chiamò nella squadra di “Fiumicino – International Airport”. Ho imparato sul campo. Ora ci sono miriadi di scuole, ma quanto valgano sinceramente non lo so. So invece di sicuro che è molto richiesto lo sceneggiatore “macchina”, che segue quelle quattro regolette dei manuali americani, non rompe le scatole e accetta di essere sottopagato». Pensa di realizzare un film tratto dal suo romanzo "Bello e impossibile"? «No, veramente l’idea non è nell’aria, almeno che io sappia. Mi sono state fatte delle proposte per trasporlo in teatro, ma per ora non si sono concretizzate. Trattandosi di un manuale di corteggiamento, non è una vera e propria storia e quindi non viene automaticamente da pensare al cinema, a meno che non si voglia estrapolare e elaborare la storia d’amore che lo ha ispirato e il tema certo sarebbe quantomeno “nuovo”». Secondo lei il cinema è solo intrattenimento o svolge un ruolo sociale e culturale? «Può svolgere tutte e due le funzioni, anzi, in un’industria cinematografica “sana” dovrebbe sicuramente svolgerle tutte e due e su più fronti. La separazione netta fra “film d’autore” e “film di cassetta” è stata una delle rovine del cinema italiano. Ci devono essere film di tutti i generi e per ogni esigenza. Divertirsi, spaventarsi, eccitarsi, riflettere… Quando sono ben fatti anche tutte queste cose insieme». Cosa pensa del cinema italiano? «Premetto che non vado molto al cinema. Mi pare però che una ripresa ci sia e che ci siano giovani registi validi. Garrone, ad esempio, è veramente bravo. Ma come industria mi pare ancora languente e se non c’è industria i talenti risultano casi isolati. Finisce che li risucchia la televisione e si perdono». |
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