CULTURE
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Le interviste di LimpidaMente
Risposta: «Mi resta la conoscenza più approfondita dell'universo infantile, soprattutto il mondo del loro disagio. Ho insegnato nelle zone più depresse e ad alta densità criminale della città (Forcella, Secondigliano, Arzano) tuttavia scoprendo, nei fanciulli, un'umanità insospettabile. In tanto degrado ambientale e umano, la loro lezione di vita (mai scoraggiarsi, guardare sempre a chi sta peggio di te, prendere la vita con filosofia, lottare per raggiungere l'obiettivo) è stata fondamentale per me, perché mi ha permesso di maturare. Dell'insegnamento non rimpiango il tram-tram quotidiano; le interminabili, noiose e quasi sempre inutili riunioni dei docenti; la spocchiosità dei direttori didattici; la gelosia professionale dei colleghi; l'apparato burocratico. E… lo stipendio». Quali differenze tra il suo insegnamento e quello dei suoi insegnanti quando era bambino? «Sto scrivendo per l'appunto un libro autobiografico, dove viene presentato "l'alunno" D'Orta. I miei insegnanti avevano la verga in mano (elementari) e nel cuore (medie e superiori), non ricordo nessuna affettuosità, nessun interesse per il "bambino" D'Orta. Eppure ne avrei avuto cose da raccontare: padre disoccupato, sei fratelli, usurai che bussavano alla porta. Come si può "capire" l'alunno, se non si conosce il bambino? Quando è toccato a me sedere dietro una cattedra, ho agito in modo contrario. Per conoscere il bambino, l'ho incontrato in orari extrascolastici, facendomi portare sul luogo del suo lavoro (dalle mie parti sono centomila i minori impegnati nel lavoro-nero); ho visitato la sua casa, l'ho portato in gita con me. E ho voluto conoscere i genitori, sapere come la pensavano, facendo spesso scoperte incredibili, scoperte che mi hanno aiutato a comprendere le ragioni per cui un alunno dormiva sempre in classe, era violento o disertava le lezioni». Cosa cambierebbe nella scuola italiana? E cosa non cambierebbe? «Tanto per cominciare, cambierei l'edilizia scolastica. Le scuole italiane sono spesso allocate in ex monasteri o palazzi borbonici, quando non in vecchie carceri. Tutto ciò intristisce gli animi. Poi c'è il fattore sicurezza: più del 50% delle nostre scuole non è a regola con le norme di stabilità, basta una piccola scossa di terremoto e vengono giù come castelli di carta. Molti edifici non hanno palestre o spazi aperti per giocare e fare ginnastica. Insomma: il termine "sgarrupato" è proprio indicato. Per quanto riguarda il corpo docente, dico che gli insegnanti dovrebbero scendere dalle cattedre e stare in mezzo ai ragazzi, conoscerli, non giudicarli solo per quel che valgono a scuola, se sanno o non sanno la data di morte di Garibaldi. I miei esempi, in questo campo, sono Alberto Manzi (per la sua grande umanità), e Gianni Rodari (per la capacità di "farsi" alunno). Ciò che salvo della scuola italiana è la preparazione dei docenti». Si aspettava il successo del suo primo libro "Io speriamo che me la cavo"? Come è nato? «Il manoscritto di quello che sarebbe diventato "Io speriamo che me la cavo", fu rifiutato da tutte le case editrici italiane a dimostrazione di quanto sia difficile pubblicare in Italia. Volevo gettare il dattiloscritto nella pattumiera, poi mia moglie mi spinse ad inviarlo a Mondadori, editore cui non mi ero rivolto per questo semplice ragionamento: l'opera non interessa i piccoli editori, figuriamoci i grandi (anche Rizzoli lo aveva -tacitamente- rifiutato). Risultato: 2 milioni di copie vendute in Italia, traduzioni in molti Paesi del mondo, rappresentazioni teatrali in Italia e all'estero, un film, 4 tesi di laurea, adozione del testo alla Yale University degli Stati Uniti… Dico tutto questo non per vantarmi, ma per non scoraggiare gli scrittori inediti cui le case editrici dicono sempre no: prima o poi -se avete stoffa- verrà il vostro turno». Che tipo di alunno è stato lei quando frequentava le elementari? «Timido, ansioso, emotivo, estremamente sensibile. A me, la scuola, ha sempre fatto paura». Lei usa frequentemente espressioni dialettali: quali aspetti della cultura napoletana la coinvolgono maggiormente? «Per usare uno stereotipo, Napoli è un teatro a cielo aperto. Vi si recitano la tragedia, la commedia e la farsa. Sono aspetti del vivere quotidiano che mi interessano e mi riguardano, perché li ho vissuti tutti. E cerco di rappresentarli nei miei libri o nei miei scritti giornalistici. Nel dialetto napoletano non esiste il futuro, quasi a significare che si vive un eterno presente; è per questo che per le strade si canta, si strilla, si fa rumore, un rumore assordante e a momenti insopportabile. Passato e presente copulano di continuo: si stendono i panni tra le braccia di due statue barocche, si fabbrica un forno da pizzeria coi mattoni di un muro romano. Napoli non è cimiteriale, Napoli è viva, Napoli è il sale di questo insipido pianeta, Napoli è una città anarchica che tuttavia ha organizzato il suo caos. Napoli è una casbah che dà lezioni di fantasia, Napoli è l'ultima possibilità che ha il genere umano di sopravvivere, come ha detto quel filosofo-ingegnere. Tutta questa filosofia io ce l'ho nelle vene, essendo nato nel ventre della città». Cosa le piace della cultura partenopea? Cosa invece non le piace? «Per la cultura napoletana, per i suoi "baroni", io non esisto. Ad ogni manifestazione culturale promossa dal Comune, sono (o erano..) invitati (e premiati) sempre gli stessi: Rea, Prisco, La Capria… Collaboro da anni a quotidiani del Nord ("il Giornale" "Resto del Carlino-Giorno-Nazione") non al "Mattino", a "Repubblica-Napoli", al "Corriere del Mezzogiorno". Cosa posso pensare della cultura napoletana? Ma si badi: io non ci tengo a far parte di quel gruppo, faccio solo un esame della situazione, e traggo le considerazioni». I suoi libri contengono dei messaggi o sono opere di pura evasione? «Contengono tutti dei messaggi, a volte evidenti ("Io speriamo che me la cavo") a volte meno. Anche le "Fiabe sgarrupate", il loro "messaggino" ce l'hanno. E' un messaggino che sarebbe piaciuto, credo, a Gianni Rodari (il quale, ispirandosi ai dadaisti e ai surrealisti, spronava a cambiare le carte in tavola, a creare nuove situazioni, a commettere di proposito errori, perché "Sbagliando s'inventa")». Si riconosce nella definizione di scrittore umorista? Perché? «Sì, mi riconosco. Ma attenzione, Mark Twain sosteneva che: "La fonte segreta dell'umorismo non è la gioia ma la tristezza". Sono umorista non solo perché lo scrittore al quale mi ispiro (Charles Dickens) lo fu, non solo perché a Napoli ironia, umorismo e fantasia sono componenti di ognuno, ma anche perché la risata cela spesso l'amarezza, e il fondo del mio cuore è amaro». Ricordiamo due suoi libri intitolati "Il maestro sgarrupato" e "Fiabe sgarrupate". Cosa ha voluto indicare esattamente con questo aggettivo? «Mi definii "maestro sgarrupato" poiché lo ero per molti aspetti. "Sgarrupato" era l'ambiente dove andai ad insegnare, "sgarrupate" erano le scuole, "sgarrupato" era lo stipendio. Invece l'aggettivo "sgarrupato", per le fiabe, vuole intendere che le fiabe e le favole classiche cadono quasi in rovina così come le ho "trattate", ma io, con Ruskin, credo che anche i ruderi abbiano una loro bellezza, un loro fascino…». Per finire, dia una risposta secca a questa domanda: l'Italia è un paese "sgarrupato"? «No. Lo è il Mezzogiorno». Approfondisci:
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