Limpida Mente

CULTURE - Le interviste di LimpidaMente

Alcune domande a UMBERTO DI PATTI
(27 agosto 2023)

Umberto Di Patti vive a San Salvatore di Fitalia (ME), un piccolo borgo della Sicilia sito sui monti Nebrodi. Laureato in Filosofia, con una Magistrale in Filosofia Contemporanea, ha conseguito un Master in Criminologia e Psicologia Giuridica e uno in Antropologia e Archeologia Forense. Scrittore, autore di testi teatrali e musicista, è anche ideatore e conduttore di diversi programmi radiofonici. Nel gennaio del 2023, inoltre, ha scritto e diretto "La caduta", il suo primo cortometraggio. LimpidaMente ha intervistato Umberto Di Patti dopo l'uscita del suo libro "Ultimo mondo cannibale".

UMBERTO DI PATTI
 

Domanda: Il suo libro traccia la storia del cannibalismo dalle epoche più remote fino ad oggi. Per chi ancora non lo ha letto può spiegare innanzitutto cosa si intende per cannibalismo?
Risposta: «Se dovessimo spiegarlo con pochissime parole, comprensibili anche a chi non ha mai condotto degli studi in merito a tale pratica, potremmo semplicemente definirlo come un comportamento che pone in essere una relazione tra il cannibale, colui che si nutre di carne umana, e il cannibalizzato, la vittima di tale condotta. Tale fenomeno può essere inserito all’interno dell’ambito evolutivo dei comportamenti aggressivi ed è tale solo quando un uomo, o anche un animale, si nutre con la carne di un altro essere della stessa specie. Condizione fondamentale rimane dunque l’intraspecificità».

C'è differenza tra cannibalismo e antropofagia?
«Prima ancora del termine che ha dato origine alla parola inglese cannibalism, oggi divenuta popolare per indicare uomini che si cibano dei propri simili, era stato utilizzato un altro vocabolo per definire tale pratica. I Greci, infatti, i quali erano a conoscenza di tale costume come lo erano anche altri popoli che li avevano preceduti, utilizzavano il termine anthropophagia, composto da anthropos, uomo, e dal verbo phagia, mangiare. Tradotto in maniera letterale, il vocabolo coniato dai Greci, da cui deriva la parola “antropofagia”, significava cibarsi di carne umana. In realtà cannibalismo e antropofagia, pur essendo utilizzati ormai come sinonimi e facendo parte entrambi dell’immaginario comune, presentano due significati simili ma non uguali, dal momento che, in linea generale, il primo termine indica la pratica di mangiare i propri simili, indipendentemente dalla specie di appartenenza, mentre il secondo designa l’atto di mangiare un essere umano».

Quanto è stato importante, nel contesto degli studi sul cannibalismo, il contributo dell'antropologia culturale?
«L’entrata in scena di una disciplina come l’antropologia culturale è risultata fondamentale per mettere ordine alla congerie di interpretazioni attribuite, fino a quel momento, al cannibalismo. Tali interpretazioni, la maggior parte delle quali formulate in maniera poco obiettiva e su basi poco attendibili, erano rivolte, fino a quel momento, non tanto al fenomeno in quanto tale ma alle popolazioni accusate di praticarlo e, anche in questo caso, indipendentemente dalla possibilità di poter verificare la realtà delle accuse in questione. Al di là delle diverse spiegazioni, evoluzionistiche, simboliche o di altra natura, attribuite all’antropofagia da parte di una corrente o da un singolo studioso, l’indubbio merito dell’antropologia culturale nei confronti di tale pratica, fin dal principio, è stato quello di provare a carpirne i significati più profondi. Nonostante le difficoltà che lo studio del cannibalismo ha sempre presentato, gli antropologi hanno comunque cercato di spiegarlo tramite degli studi condotti in maniera seria, rigorosa, e, allo stesso tempo, distaccata e libera da pregiudizi, senza lasciarsi andare a facili e inutili moralismi, convinti che fosse necessario cercare di comprendere i costumi di ogni singola cultura sulla base delle proprie peculiarità e del proprio percorso storico».

Nel libro vengono descritti vari generi di cannibalismo; tra questi cita anche il cannibalismo terapeutico. In cosa consiste?
«Nell’Antichità e, soprattutto, nel Medioevo, nutrirsi di carne umana era ritenuto un modo utile per curarsi da malattie quali la sifilide o l’epilessia. Tali pratiche, definite cannibalismo terapeutico, hanno continuato a mantenersi in vita anche nelle epoche successive, giungendo addirittura fino ai giorni nostri. Secondo diverse fonti, infatti, macabre vicende, ascrivibili a tali credenze, sarebbero avvenute in tempi recenti in Cambogia e, soprattutto, in Cina, dove il cannibalismo ha sempre avuto una forte connotazione terapeutica».

E il cannibalismo simbolico, cos'é?
«Il cannibalismo, almeno quello inteso come costume generale, cominciò lentamente, con il passare del tempo, a mutare di forma o, addirittura, a scomparire. Al di là delle possibili spiegazioni formulate in merito a tale processo e al di là delle eccezioni, rappresentate dalle culture che continuarono a praticarlo anche nei periodi successivi, tale costume si avviò verso la strada che l’avrebbe reso quel tabù inviolabile che tutti conosciamo. All’innescarsi di tale processo contribuì, molto probabilmente, la concatenazione di diversi fattori. Tra i più importanti si possono annoverare la nascita delle realtà statali e l’avvento delle grandi religioni monoteiste. Con il passare del tempo, molte civiltà sostituirono l’antropofagia dapprima con il sacrificio animale e poi con un altro tipo di cannibalismo, quello simbolico, il quale, pur non prevedendo l’omicidio rituale e il consumo di carne umana, si avvicinava alla pratica originale soprattutto per il suo significato intrinseco. Dal momento che, pur avendo eliminato la componente cannibalica, continuava a mantenere in vita le ritualità che avevano caratterizzato la tradizione precedente, il cannibalismo simbolico divenne, a tutti gli effetti, un surrogato del cannibalismo vero e proprio».

Poi c'è anche il cannibalismo criminale. In cosa consiste e in cosa si differenzia dalla pratica precedente?
«Il cannibalismo criminale, scevro da qualsiasi componente rituale comunitaria e lontano da una pratica messa in atto in termini di sopravvivenza, è il risultato di una patologia, di una devianza o di una libera scelta. Anche se spesso le due categorie vengono a coincidere, gli studiosi tendono a distinguere tra cannibalismo psicopatologico e cannibalismo criminale. Nel mio libro, dopo aver analizzato il cannibalismo legato a fattori culturali, all’interno del quale l’atto cannibalico acquistava tutta una serie di connotazioni simboliche, magiche e ritualistiche, e quello dettato da situazioni estreme, legato a questioni di mera sopravvivenza, ho esaminato quello derivato da situazioni di confine, dove la follia detta le regole di una realtà che è altra rispetto a quella cui siamo abituati, e quello che affonda le proprie radici negli abissi dell’animo umano, lì dove regnano le tenebre della rabbia e della violenza. In questi luoghi, l’antropofagia, pur essendo spesso connotata da particolari risvolti simbolici e rituali, non è praticata da popoli con usanze che noi definiremmo primitive ma da psicopatici e da criminali».

Ha fornito una personale classificazione del cannibalismo criminale: potrebbe illustrarla, brevemente, anche ai lettori?
«A partire dalla principale motivazione che è all’origine dell’atto cannibalico, ho distinto tre diverse tipologie di cannibalismo criminale: cannibalismo criminale semplice, cannibalismo criminale introiettivo e cannibalismo criminale esoterico. Il cannibalismo criminale semplice, scevro da qualsiasi componente fusionale o metafisica, viene praticato per puro piacere, per dare sfogo alla propria aggressività o al proprio bisogno di potere; nel cannibalismo criminale introiettivo, invece, la motivazione principale è il desiderio, da parte del cannibale, di entrare in comunione con lo spirito della vittima; il cannibalismo criminale esoterico, infine, viene messo in pratica allo scopo di poter ottenere una qualità appartenente al soggetto cannibalizzato o per ingraziarsi una qualche entità sovrannaturale nella speranza di riceverne dei vantaggi».

Nell'ultima parte del libro parla anche di licantropia: c'è un nesso con il cannibalismo?
«Il cannibalismo, nel corso della storia, è stato spesso mascherato e occultato tramite la sua trasposizione in diverse figure antropofaghe - streghe, orchi o lupi mannari, giusto per fare qualche esempio - presenti, seppur in maniera diversificata e in periodi diversi, in molte culture. È probabile, in pratica, che nei secoli passati, per spiegare episodi di macabra ferocia, come, appunto, l’uccisione e la cannibalizzazione di un essere umano, si preferisse far risalire il tutto alla presenza di una creatura demoniaca o a una contaminazione animale, ascrivibile a una magia oppure a una caso di stregoneria».

La tematica del cannibalismo è ampiamente trattata in questa opera. È tutto o vi sono altri risvolti da trattare sull'argomento, magari in un suo prossimo libro?
«Credo proprio che tutto quello che avevo da dire io l'abbia già ampiamente detto in questo mio lavoro. Nel libro "Ultimo mondo cannibale" ho esposto la mia tesi, secondo la quale il cannibalismo, ritenuto una pratica ormai estinta e figlia di culture lontane dal nostro tempo, abbia solo mutato la sua forma e sia ancora presente all'interno della nostra società, seguendo una percorso che, partendo dal cannibalismo praticato in maniera rituale e comunitaria, ha condotto il lettore fino ai giorni nostri, dove l'antropofagia, nonostante il pensiero comune, è tuttora praticata da psicopatici e criminali. Non penso di avere altro da aggiungere su questo argomento. Almeno da questo punto di vista. Toccherà ai lettori, adesso, e agli addetti ai lavori, esprimere il loro gradimento e il loro parere su questo mio lavoro».

La sua biografia dimostra che lei ha vari interessi professionali e artistici: quali di questi la soddisfano e gratificano di più?
«Qualche anno addietro, riflettendo proprio su questo argomento, ho avuto quella che potrebbe essere definita come una vera e propria epifania e ho compreso che, in qualunque modo io mi esprima, qualunque linguaggio io utilizzi, alla fine faccio sempre la medesima cosa: raccontare. È un'arte, quella del racconto, che mi appartiene e che credo di aver assimilato in giovane età, quasi per osmosi, dai miei stessi familiari, in particolare dal mio nonno paterno, il quale, durante le lunghe sere d'inverno, mi raccontava, con grande maestria, le storie della tradizione orale che aveva appreso, a sua volta, quando era ancora un bambino. Da allora, qualunque cosa io faccia - una lezione, la direzione di un evento artistico, la scrittura di un romanzo o di un testo teatrale, un programma radiofonico, un cortometraggio, anche una canzone - io non faccio altro che raccontare una storia. E, in fondo, anche questo mio lavoro cos'è se non il racconto di come il cannibalismo abbia attraversato tempi, luoghi e culture diverse fino a giungere ai giorni nostri? La scelta di utilizzare una forma di espressione piuttosto che un'altra dipende solamente dalla storia che in quel momento ho intenzione di raccontare e da quello che reputo il modo più congeniale per farlo. Al di là della scelta puramente stilistica, però, la sostanza, cioè il voler raccontare una storia, non cambia. Perché, in fondo, come sosteneva Muriel Rukeyser, “l'universo è fatto di storie, non di atomi”».

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